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L’autoresponsabilità

Autoresponsabilità
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La responsabilità è l’imputazione di una obbligazione risarcitoria.

Con maggiore impegno esplicativo, è causa costitutiva di una obbligazione che ha ad oggetto un risarcimento in forma specifica o per equivalente.

L’obbligazione, che è un vincolo di diritto, sorge tra 2 o più soggetti.

Per aversi responsabilità occorre, dunque, un rapporto giuridico con un soggetto all’infuori di sé.

L’ autoresponsabilità’ è, invece, la responsabilità verso se stessi: ma l’ipotesi di cagionarsi un danno e prevedere un risarcimento con funzione ripristinatoria nei confronti della propria persona, immediatamente svanisce per confusione (intesa come istituto giuridico, non come stato di obnubilamento), in quanto descrive una comunanza di titolarità tra danneggiato e danneggiante e rappresenta, quindi, qualcosa di contraddittorio ed equivoco.

L’ordinamento prevede, ad ogni modo, l’autoresponsabilità come onere(secondo alcuni obbligo) giuridico del creditore, titolare di una obbligazione risarcitoria, di evitare il danno usando l’ordinaria diligenza.

Tale asserzione si erge a principio virtuoso dell’ordinamento: consiste nel prevedere le conseguenze negative di una condotta illecita del terzo e adoperarsi nei limiti del buonsenso.

In un noto caso che ha riguardato una facoltosa azienda in stato di insolvenza, la concessione abusiva di una ingente quantità di credito da parte di un istituto bancario a tale impresa, in dissesto economico, ha portato alla richiesta di risarcimento danni del liquidatore dell’impresa in crisi.

La concessione abusiva del credito è un fatto illecito fonte di responsabilità aquiliana (la cui elaborazione primigenia sorge nella “Lex Aquilia de damno iniuria dato” , di più di 2 millenni fa): tenere in vita artificialmente un soggetto decotto reca confusione nei creditori che ripongono affidamento sulla sua presunta solvibilità.

Il liquidatore della società in questione, dunque, chiede un lauto risarcimento danni per la concessione di credito abusiva,”contra legem” .

L’ autoresponsabilità’ della impresa in crisi, però, consiste nel tenere un comportamento virtuoso che tenti di evitare il danno quando questo sia prevedibile.

Nel caso di specie si ritiene che il dissesto societario sia certamente un dato empirico oggettivo che permette al soggetto sottoposto a liquidazione giudiziale(come da nuova nomenclatura del Codice dell’Insolvenza che ha espunto il termine “fallito” ritenuto stigmatizzante) di valutare l'(in)opportunità di chiedere ulteriore credito in prestito, pur sapendo di non poter adempiere alla restituzione del “tantundem” .

Stante dunque la responsabilità verso se stessi, il risarcimento del danno non è dovuto ogni volta che il creditore(in questo caso la società in crisi) avrebbe potuto evitarlo usando l’ordinaria diligenza.

L’imprenditore, dunque, avrebbe dovuto desistere dal chiedere ulteriore credito, sapendo di non poter adempiere: nonostante la Banca abbia concesso abusivamente del credito (fatto illecito) non è tenuta ad alcun risarcimento.

In realtà tale logica virtuosa che descrive un onere del soggetto danneggiato di non subire passivamente l’evento lesivo ma di prodigarsi nell’evitare ciò che sia prevedibilmente evitabile, trae l’abbrivio da un noto principio di epoca giustinianea: “in pari causa turpitudinis melior est conditio defendentis” .

Richiedere il ripristino dello “status quo ante” per una lesione di un interesse giuridicamente protetto che ha causato una perdita(danno), è illegittimo quando anche il soggetto che si ritiene leso ha concorso nella causazione del danno in misura tale da poterlo evitare usando l’ordinaria diligenza(o per lo meno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa del danneggiato e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate).

La colpa del danneggiante (la Banca) è compensata dalla colpa del danneggiato (l’imprenditore decotto).

Ma”quid iuris”in caso di responsabilità oggettiva del danneggiante?

L’elemento soggettivo di colpa si perde nella responsabilità oggettiva che postula un profilo di imputazione di una obbligazione risarcitoria slegato da un addebito colposo o doloso.

Si pensi al caso accademico del Comune ed alla sua responsabilità oggettiva relativa ai sinistri riconducibili alle situazioni di pericolo immanente connesse alla struttura ed alla conformazione della strada e delle sue pertinenze.

Se la responsabilità del Comune è oggettiva, è irrilevante la condotta della vittima che, negligentemente, omettendo di osservare le normali regole di cautela vada a finire in una buca cagionandosi un danno.

Come afferma la Cassazione civile, in un “obiter” , nell’ordinanza n. 2481 del 1 febbraio 2018, “L’ente proprietario di una strada si presume responsabile, ai sensi dell’art. 2051 c.c., dei sinistri e delle lesioni dei pedoni, fermo restando, però, che su tale responsabilità può influire la condotta della vittima, la quale, assume efficacia causale esclusiva soltanto ove sia qualificabile come abnorme, cioè estranea al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell’art. 1227 c.c.”.

Anche nel caso di responsabilità oggettiva del Comune, la condotta del consociato assume, dunque, un valore eziologicamente rilevante: il virtuoso principio dell’autoresponsabilità’, (“rectius”, parafrasando: il concorso colposo del fatto del creditore/danneggiato nella causazione del danno) obbliga il Giudice a valutare la condotta negligente del danneggiato e compensare, eventualmente, le colpe.

Fin qui, nel caso in cui le due condotte causative del danno si rivelino omologhe: “id est” sia il danneggiato/creditore che il danneggiante/debitore assumano una condotta connotata dal profilo della colpa, o “a fortiori” di responsabilità oggettiva.

E se ci fosse il dolo del danneggiante? Rileverebbe ancora, casualmente, la mera colpa del danneggiato?

Come afferma il Pacchioni, ormai un secolo fa, nella ipotesi di “seduzione con promessa di matrimonio”troviamo i due elementi soggettivi del danno in forma eterologa.

La seduzione con promessa di matrimonio è un fatto illecito, di ormai desueta applicazione.

Interessante è, però, l’indole capziosa del seduttore che, con dolo, carpisce la volontà della sedotta promettendole, vanamente, qualcosa che non ha alcun intenzione di mettere in atto: convolare a nozze.

L’imprudenza e la negligenza della donna, che ben avrebbe potuto evitare il danno sottraendosi alle insistenze del seduttore, hanno un rilievo causativo del danno?

Il Pacchioni afferma che il dolo vince sempre sulla colpa : la malizia dell’agente, il seduttore, assorbe la colpa della sedotta e la esclude da alcuna (auto)responsabilità.

L’orientamento delle Corti, invece, esalta la libertà di autodeterminazione del soggetto coartato(la donna) e afferma che laddove questa abbia avuto la possibilità di evitare la situazione potenzialmente dannosa, usando l’ordinaria diligenza, e non si sia adoperata a ciò, accetta le conseguenze negative del fatto.

Il principio, sempre di matrice classica(secondo alcuni di elaborazione del giureconsulto Pomponio) è “Volenti non fit iniuria” , ossia: a chi volle, il diritto non accorda alcuna tutela.

La volontà di estrinsecare la propria determinazione si erge a scriminante della responsabilità del seduttore.

Ben avrebbe potuto, la sedotta, negarsi al corteggiamento. Non ha diritto, dunque, ad alcun risarcimento.

A riguardo, occorre evidenziare il tetragono orientamento della giurisprudenza nel ribadire che, in linea generale, il creditore non ha l’onere di porre in essere attività straordinarie, molto costose o rischiose (con valutazione “case by case” del Giudicante)per evitare il danno.

Si evidenziano, paradigmaticamente, arresti giurisprudenziali sul tema che delineano meglio la “ratio” e i presupposti della normale attività del danneggiato: si pensi al caso del conduttore che non provveda a denunciare i vizi dell’alloggio al locatore così da accrescere gravemente l’entità dei danni subiti; o all’inquilino che, soggetto ad infiltrazioni dal piano superiore, ometta imprudentemente di spostare il costoso tavolo in legno, contribuendo così al suo deterioramento.

Si tratta di attività che il creditore può mettere in atto senza correre alcun rischio, senza costi gravosi e che rientrano nella normale amministrazione dei beni.

L’eventuale negligenza del danneggiato avrà, dunque, rilievo causale nella quantificazione del danno.

Tale costruzione virtuosa e compensativa delle colpe, trova un

addentellato anche in ambito penale.

In una visione pancivilistica dell’ordinamento, dove il diritto penale ha una funzione sussidiaria e di “extrema ratio”, si è cercato di traslare, “mutatis mutandis” , la regola di diritto civilistica.

Nel penale, il principio è “paria delicta mutua compensatione tulluntur” , ovvero:se entrambe le parti commettono un delitto, questi(i delitti) si compensano.

Si pensi al caso di scuola del soggetto che, con artifizi e raggiri, induca in errore un pubblico ufficiale a rilasciargli un documento abilitante l’esercizio di una attività professionale; salvo poi scoprire che si trattava di un usurpatore delle funzioni di pubblico ufficiale, che non aveva tale qualifica e che lucrava elargendo documentazioni false.

L’agente pone in essere una truffa senza sapere di esserne a sua volta vittima.

I due reati si compensano. Nessuna pena per entrambi?

Ledere o mettere in pericolo un bene giuridico altrui è condotta inoffensiva se vi è la stessa offesa dall’altra parte?

In realtà, in ambito penale, l’interesse dello Stato a perseguire la repressione dei crimini, specie se si tratta di reati procedibili d’ufficio, vieta di procedere ad alcuna forma di compensazione, anche solo larvata.

Ad ogni modo, la questione relativa alla configurabilità della truffa(o di altro reato contro il patrimonio) nell’ambito dei rapporti illeciti è stata oggetto di attenzione della dottrina.

Per Giurisprudenza dominante occorre prestare, primariamente, tutela alla buona fede negoziale (ormai entrata nel tessuto connettivo dell’ordinamento) quale principio di ordine pubblico, piuttosto che al mero interesse del patrimonio individuale.

Occorre dunque reprimere ogni forma di slealta’ nei traffici commerciali, pur se compensata.

Ad colorandum”, anche in ambito amministrativo,si configura la disciplina dell’autoresponsabilita’ relativamente all’azione di annullamento dell’atto, prodromica alla richiesta

di risarcimento, ogniqualvolta la tempestiva richiesta impugnatoria di annullamento avrebbe diminuito od evitato il sorgere del danno da risarcire.

Ed, ancora, in ambito di soccorso istruttorio, si è evidenziato che la condotta dell’operatore economico è fonte di responsabilità tutte le volte in cui integri abusivamente la documentazione prevista per l’attività endoprocedimentale di proposta dell’offerta, anziché limitarsi a regolarizzare la propria posizione.

Merita, in conclusione, menzione una pronuncia giurisprudenziale risalente, che prevedeva una nozione “oggettiva” di colpa intesa come autoresponsabilita’, che includeva nella sfera di trasgressione di una regola di diligenza del danneggiato anche la figura del soggetto incapace di intendere e volere (Cass. del 1978 n. 630).

L’oggettività della previsione del danno sarebbe , in re ipsa, addebitabile anche al soggetto incapace.

Seppur sembra meritorio elevare il principio che ci occupa a

regola virtuosa, appare, in tal caso, inopportuno addossare al creditore rischi che non sia in grado di controllare.

Avv. Mauro Casillo

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