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Alla ricerca dell’autenticità perduta

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La vita occidentale sembra talvolta senza punti di approdo. Per Sartre gli altri sono l’inferno. Eppure siamo continuamente alla ricerca degli altri. Eppure nessuno riesce ad essere totalmente misantropo. Secondo la psicologia l’immagine che abbiamo di noi stessi dipende dalla considerazione che gli altri hanno di noi. Come scrive Goleman: “Il nostro senso dell’io nasce nelle nostre interazioni sociali: gli altri sono gli specchi che riflettono la nostra immagine, un’idea che è stata riassunta nella frase: sono ciò che penso che tu pensi che io sia”. Almeno questo è quello che succede nei primissimi anni di vita, in cui prima viene l’interpsichico e dopo l’intrapsichico. Successivamente a mio avviso è più l’idealismo che il realismo a spiegare le nostre azioni. Naturalmente c’è chi anche in età adulta imita gli altri. Talvolta impersoniamo una parte, recitiamo un ruolo. Talvolta siamo maschere. Secondo Schopenhauer nella vita perdiamo 3/4 di noi stessi per essere come gli altri. La maggioranza di noi preferisce essere amata a tutti i costi dagli altri. Preferisce essere amata anche se questo significa perdere genuinità e significa essere amata per ciò che non è. Tutti vogliono essere accettati. Secondo la vulgata ognuno è unico e irripetibile. Però nel corso dell’esistenza ci sforziamo di essere delle copie. Ci facciamo omologare e appiattire. Spesso ci perdiamo nella chiacchiera impersonale, che Heidegger criticava perché priva di sostanza, frivola e talvolta infondata. La chiacchiera spesso è un discorso fine a se stesso. Spesso sfocia nel pettegolezzo. Ma in fondo è anche essa un modo per passare il tempo. È una distrazione. Per Heidegger l’esistenza è realmente autentica solo se è continuo memento mori. Ma ne siamo davvero così sicuri? Viene da chiedersi cosa c’è di realmente autentico in questa vita. Il lavoro è sovente noioso, ripetitivo, alienante. Dovrebbe nobilitare l’uomo e spesso lo stressa, lo abbrutisce. Senza lavoro d’altra parte si sta ancora peggio perché l’essere umano è contemplato solo come homo faber e come homo oeconomicus. Il lavoro non autorealizza quasi mai ma è l’unico mezzo di sostentamento. I soldi comunque non bastano mai e c’è sempre una ricerca continua del colpo gobbo, partecipando a lotterie, scommesse e giochi a premi. C’è qualcosa di autentico in questo? C’è qualcosa di autentico nelle abitudini che costellano la nostra esistenza e che appaiono così rassicuranti? Non sono routine? Non sono anche esse alienanti? C’è qualcosa di autentico nel pensiero, che nella migliore delle ipotesi è fatto di reminiscenze e conoscenze di seconda mano? C’è qualcosa di autentico nel conformismo e nella continua competizione con gli altri? C’è qualcosa di autentico nel vestire bene e nell’inseguire sempre tutte le mode? C’è qualcosa di autentico nella curiosità morbosa che ci fa assistere a spettacoli di tragedie e altri fatti di cronaca nera? C’è qualcosa di autentico nel sesso con la consorte, che sovente è puro e semplice dovere coniugale? Oppure c’è qualcosa di autentico nel sesso occasionale, pura e semplice ricerca del piacere? Non è in fondo anche il sesso diventato una forma spiccia di comunicazione interpersonale e un modo per autoestraniarsi? C’è qualcosa di autentico nel divertimento? C’è qualcosa di autentico nello sballo e nella musica assordente e stordente del Sabato sera? C’è qualcosa di autentico nel picnic primaverile? E nella vacanza esotica con l’agenzia di viaggio? Tutti vogliono girare il mondo mordi e fuggi. Ma cosa resta di tutto ciò? Cosa c’è di vero e cosa di apocrifo? Talvolta visitano luoghi molto distanti senza considerare le bellezze di casa nostra. In questa vita tutto sembra simulacro. Tutto sembra un mezzo per raggiungere un altro mezzo. I frammenti di noi stessi sono stati persi in giro. Cosa davvero è un fine? Cosa davvero resta? La ricerca di libertà e di felicità sono davvero autentiche? Si può sempre parlare di intimi convincimenti in un mondo in cui tutto è sempre più imposto? Anche le risposte della religione sembrano inadeguate perchè i credenti delle prime file delle chiese non sono altro che bigotti maligni e alcuni preti che dovrebbero prima di tutto dare il buon esempio non sono che falsi preti. In fondo anche le persone religiose in buona parte dei casi sono chiuse, credono nei luoghi comuni e negli idoli come tutti gli altri. Questa società corrompe quasi tutti. Insomma non mi sembra che ci siano appigli. Tutto è alla deriva e sono veramente pochi coloro che si salvano. Come dicevano gli antichi tutto è vanità di vanità. Sono pochi gli illuminati. Niente e nessuno sfugge a questa logica.

Davide Morelli – Pontedera

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