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Il diritto penale: un’arma a doppio taglio

Il diritto penale: un'arma a doppio taglio
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Secondo una vetusta teoria degli anni ’50 del’ 900 il reato è un ” fatto che offende gravemente l’ordine etico” (Maggiore): ma etica e diritto sono concetti che non sempre corrispondono (“non omne quod licet, honestum est”).

La tutela di un diritto socialmente rilevante, nasconde, spesso, la contemporanea lesione di un interesse contrapposto (si pensi, ad esempio, alla libertà di opinione che sconfini in diffamazione: fino a che punto ci si può spingere nell’esternare un pensiero senza ledere la fama e la reputazione altrui? ).

Nella difficile operazione di bilanciamento tra diritti confliggenti, il legislatore predispone i rimedi alle inevitabili “ferite” (il c.d.”vulnus”) al bene giuridico che, tra i due diritti, risulta leso.

Tuttavia, è impensabile ritenere che si possa regolare ogni aspetto della vita che accordi un interesse legittimo e proteggerne, allo stesso tempo, il suo speculare antitetico: ecco che allora entra in gioco l’opera valutativa del Giudice che interpreta, caso per caso, la norma sciogliendo i nodi di equivocità e contraddittorietà che, eventualmente, si manifestino e accordando tutela al soggetto danneggiato.

In tema, nel variegato panorama giurisprudenziale, ha trovato sempre più spazio il reato, di natura sussidiaria e di chiusura del sistema, di “Violenza Privata”: fattispecie delittuosa che punisce chi costringe taluno a tollerare, omettere o compiere un’ azione.

Reato che ben rappresenta la difficoltà di tutelare interessi contrapposti.

Una sorte di contenitore vuoto, da riempire con tutte quelle fattispecie di reato che non sono tanto gravi come un’estorsione ma neanche ritenute lecite o incoraggiate dall’ordinamento, in quanto forme di coartazione morale.

In particolare, è balzata agli onori della cronaca la vicenda relativa al diritto del giornalista (la cui opera divulgativa contribuisce al progresso di civiltà di un Paese, ed è perciò altamente meritoria) ad assecondare la sua “sete di verità”, a ricercare la realtà storica e processuale, a perseguire di fatto, con insistenza, il malfattore di turno o il sedicente affabulatore anche con metodi poco ortodossi (pedinando, inseguendo, domandando con insistenza); e, dall’altra parte, la tutela dell’intervistato a non sentirsi costretto a tollerare un comportamento persecutorio o violento, contro la sua volontà.

Da un lato abbiamo il lodevole e costituzionalmente tutelato diritto di cronaca rivendicato dal giornalista, dall’altro la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo (l’intervistato) il quale non ha nessuna voglia di rilasciare una dichiarazione e si rifiuta categoricamente di instaurare un dialogo.

Sarebbe troppo semplice sacrificare, sull’altare degli interessi in gioco, il diritto all’informazione giornalistica: ogni volta che un soggetto, che ha dichiarato di non voler rispondere ad una domanda, si vedesse riproporre la medesima questione o fosse incalzato in qualsiasi altro modo (che non trasmodi in violenza) potrebbe rivendicare il suo diritto a non essere coartato, a non essere costretto a tollerare un comportamento che non gli aggrada.

Ed ecco che così la Comunità si trasformerebbe in un museo di mummie: incapaci di alcuna spinta propositiva e attenta a non oltrepassare mai il confine della libertà di autodeterminazione del terzo.

È evidente che una verità scomoda difficilmente emerge in un contesto sereno: chiedere spiegazioni, con insistenza, relativamente ad una condotta oggetto di rinvio a giudizio (come nel caso che, da ultimo, ha impegnato la giurisprudenza sul tema) può giustificare una maggiore veemenza e un certo grado di ostinazione, accanimento, persin anche petulanza del giornalista, che non sono sinonimi di coartazione o costrizione dell’intervistato.

Il regolamento dei confini tra lecita attività di ricerca della notizia e costringimento a tollerare una condotta dai tratti inquisitori, risulta di difficile inquadramento.

Quando l’ostinazione nel riproporre una domanda cessa di essere giornalismo d’inchiesta e diventa violenza privata?

Nella valutazione del fatto non ci si può esimere dal considerare, tra l’altro, rilievi soggettivi: il tenore delle domande, il soggetto intervistato, l’opinione dei “media” sul caso…

Accade infatti, frequentemente, che il soggetto già condannato in primo grado per un fatto di reato, sia vittima di una più insistente serie di domande “giustificata” dalla presunzione di colpevolezza.

In un Paese garantista, invece, ogni consociato è considerato (rectius: dovrebbe esserlo) innocente fino a condanna definitiva.

Ad oggi il legislatore non ha predisposto un sistema di norme che regoli il bilanciamento tra i due interessi descritti: resta nelle mani del Giudicante valutare, caso per caso, quale sia il diritto ad essere maggiormente leso (il diritto di cronaca o la libertà di autodeterminazione del privato) ed apprestare rimedi che, proprio perché potrebbero offendere situazioni giuridicamente tutelate, devono essere connotati del requisito della proporzionalità e congruità.

Nella disputa, ha, quasi sempre, la meglio il diritto del privato.

Quando, però, ci si indigna di fronte all’accanimento nei confronti dell’intervistato che è costretto a cercare sollievo e rifugio nella fuga, bisogna ricordarsi che è dal giornalismo “sporco” d’inchiesta che sorge quel sano movimento di denuncia che ha fatto emergere, negli anni, le nefandezze e gli scandali della Società.

La Cassazione sul punto è pressoché tranciante: il diritto di cronaca può “salvare i giornalisti dagli eventuali reati commessi con la pubblicazione delle notizie”, ma non da “quelli compiuti al fine di procacciarsele” (inseguimenti, pedinamenti, domande insistenti).

Si riporta, esemplificativamente, uno stralcio della pronuncia della Cassazione sulla questione della TAV in Val di Susa: “Il diritto di critica e quello di cronaca rilevano solo rispetto all’informazione su fatti storici alla cui concretizzazione è estraneo il soggetto che quei diritti esercita: è scriminato l’articolo che dà conto di un fatto vero, mentre non è scriminata la condotta di chi, per raccogliere la notizia, viola la legge penale”.

Resta ferma l’idea che l’intuizione di aver scovato una fattispecie di reato andrebbe incoraggiata e non soppressa.

Come afferma il Mantovani: “solo attraverso il procedimento intuitivo è possibile attingere l’essenza del reato, “sentire” il reato in ogni suo elemento ed in ogni elemento tutto il reato”. Scriminanti comprese.

 

 

AVV. MAURO CASILLO

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