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Il valore giuridico del tempo

Il valore giuridico del tempo
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Il tempo racconta il divenire delle cose.

Divenire vuol dire trasformarsi; mutare la propria essenza ed il proprio valore.

Volendo condensare in poche righe un dibattito ultra decennale, si è ormai riconosciuto a livello giurisdizionale un valore effettivo ed economico al “tempo”, nel campo del diritto.

Un rapporto giuridico si estingue per effetto del trascorrere del tempo(prescrizione); un atto non può più essere compiuto a causa del protrarsi del tempo (decadenza); una fattispecie penale può mutare la sua forma per opera del decorrere del tempo(successioni di leggi penali nel tempo e profili di diritto intertemporale).

Ma è nel rapporto tra il privato e la Pubblica Amministrazione che meglio si esplica il rilievo del tempo quale “bene della vita”: l’ente pubblico ha l’obbligo di emanare un atto conclusivo del procedimento (art 2 l. 241/1990) tramite provvedimento amministrativo, o nelle altre forme espressamente previste, in un ragionevole lasso di tempo. La giurisprudenza ha riconosciuto che il ritardo nella conclusione di un procedimento amministrativo è sempre un costo, visto che il tempo costituisce “un’essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica”. (Cons. Giust. Amm. Reg. Sic. 4 novembre 2010 n. 1368).

Anche una volta emanato un provvedimento amministrativo, il tempo riveste una funzione dirimente: quella di consolidare una situazione giuridica soggettiva.

Il privato fa affidamento sulla situazione di vantaggio che gli è stata riconosciuta con un provvedimento amministrativo e che lo faculta a disporre e godere del bene o della situazione giuridica ampliativa della propria sfera personale o di disponibilità patrimoniale “quatenus iure civili permittitur” (nei limiti che l’ordinamento gli accorda).

La Pubblica Amministrazione può, però, al fine di garantire un preminente interesse pubblico, revocare o annullare un proprio atto con travolgimento degli effetti sin dal suo sorgere.

Il privato, dal canto suo, è tutelato dalla negativa condizione di essere esposto “sine die” ad un provvedimento di revoca, da un tempo di azione di autotutela della P. A. ben determinato : entro 18 mesi dalla emanazione dell’atto autoritativo.

La tutela del legittimo affidamento (c.d.”legitimate expectations”) del consociato è, quindi, garantita dal suddetto termine, il cui varo è stato predisposto, a seguito di una lunga diatriba dottrinale, dalla Legge Madia.

Il tempo sembra qui determinante sotto 2 diversi profili solo apparentemente antitetici: il rafforzamento di una posizione di vantaggio e la (eventuale) revoca di tale diritto in un arco temporale ben delineato.

L’apparente contrasto rivela, ad un’analisi più attenta, un doppio profilo di tutela : di consolidamento della situazione giuridica e di limite all’azione demolitoria della P. A..

Appurato il valore economico del tempo quale bene della vita occorre analizzare, sinteticamente, il nesso di causalità che lega un ritardo ad un danno.

Un primo filone interpretativo muove dall’idea che il ritardo sia, “in re ipsa”, un danno.

Non c’è bisogno di alcuna prova: è ontologicamente dannoso un protrarsi eccessivo del tempo, anche quando il provvedimento emanato dalla P.A. sia sfavorevole alla sfera personale e patrimoniale del privato destinatario.

Altro filone, maggioritario, richiede l’allegazione di prove che il ritardo abbia effettivamente causato un danno, che possono consistere anche in mere presunzioni (conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto) ma che non possono essere rimesse, “tout court”, alla valutazione equitativa del Giudice ex art 1226 cc.

Nelle procedura ad evidenza pubblica, invece, la responsabilità della Stazione Appaltante che escluda illegittimamente un Operatore Economico lede la sfera degli interessi “positivi” (lucro cessante) e quella degli interessi “negativi” a non essere occupati in trattative inutili: un inutile “spreco di tempo”.

Dal lato civilistico, invece, il tempo assurge a canone indefettibile di costituzione di situazioni giuridiche soggettive: si pensi all’acquisto a titolo originario del diritto di proprietà per il trascorrere del tempo (usucapione); all’acquisto della qualità di erede o alla sua rinuncia; alle azioni di recesso (determinativo, in autotutela, di pentimento e consumieristico); agli interessi (compensativi, corrispettivi e moratori) e alla rivalutazione monetaria di una obbligazione pecuniaria che sorge con il trascorrere del tempo.

Merita un cenno, in materia di interessi, l’influenza del decorrere del tempo sulla disponibilità e sulla fertilità del denaro: il protrarsi di una condizione debitoria incide sull’assetto originario del rapporto obbligatorio,comportando oneri economici di compensazione e di guadagno; il legislatore tutela il creditore con strumenti (gli interessi) di natura accessoria all’obbligazione principale.

In ambito penale, invece, il tempo ha una doppia connotazione: fisiologica e patologica.

La successione di leggi penali nel tempo è una normale evoluzione delle regole della civiltà: il diritto, come diceva Ermogeniano, è costruito in funzione degli uomini(“cum igitur homimum causa omne ius constitutum sit”) e non può, dunque, che essere espressione del costume e delle consuetudini che si avvicendano nel corso dei tempi, oltre che secolarizzazione dei principi di matrice cristiana.

Ma accanto ad un fisiologico sviluppo diacronico di leggi(attuato con l’ istituto della abrogazione, con o senza abolizione della legge) vi è un lato patologico: l’illegittima costituzionale di un precetto penale.

Il problema che si crea è di non poco momento in quanto un consociato può essere giudicato diversamente, per uno stesso fatto, rispetto ad un altro soggetto, per il mutarsi della legge nel tempo, con un evidente “vulnus” al principio di uguaglianza. Interessante ancora, seppur connotata di pericolosa discrezionalità, la componente temporale nel reato premeditato e nel reato continuato.

Nella prima, l’aver agito “frigido pacatoque animo”, ossia con premeditazione, costituisce una circostanza aggravante del reato.

In una risalente ma icastica sentenza relativa ad un efferato omicidio, si afferma, a riguardo, che “lo spazio temporale intercorrente tra Bolzano ed Elvas di Bressanone (circa 30 km), percorso in 30 minuti, è un tempo sufficiente a far desistere dal proposito criminoso un uomo di media moralità”; laddove, invece, come avvenuto, il soggetto perpetri il reato pianificato, si avrà l’aggravante della premeditazione. Resta nelle mani del Giudicante valutare,” case by case”, se il lasso temporale (qui mezz’ora) è stato sufficiente a progettare e convincersi di attuare l’azione criminosa.

Allo stesso modo un soggetto che pone in essere un numero di reati ordinato al medesimo disegno criminoso, ottiene una diminuzione della pena, poiché vince una sola volta la controspinta inibitoria a commettere un delitto.

Ci si è interrogati a lungo su quanto consistente possa essere l’intervallo di tempo tra un reato e l ‘altro nella medesima rappresentazione criminosa finale: si afferma, oggi, con aspre critiche dottrinali, che persin anche una serie di furti (o altre ipotesi delittuose) avvenuti in anni differenti, in regioni diverse, con vittime eterogenee, possa rappresentare un “medesimo disegno criminoso” che accorda una disciplina di favore per il reo.

Si pensi, da ultimo, alla massima manifestazione della dirimenza del fattore tempo in ambito giuridico: il caso del risarcimento dei danni c.d. “lungolatenti”.

Il decorrere del tempo era (fino all’avvento di una innovativa teoria di elaborazione pretoria), preclusivo di azioni di risarcimento tutte le volte in cui, tra la condotta causativa dell’evento nefasto e le conseguenze verificatesi, vi era un arco temporale talmente lungo da estinguere il diritto.

Emblematico il caso di denegata previsione di risarcimento danni da inalazioni di sostanze tossiche, nocive per l’organismo, sul luogo di lavoro: ad un iniziale stato di flogosi da esposizione all’amianto (c.d. asbestosi, vedasi “caso Eternit”) produttivo, il più delle volte, di sintomi da infiammazione respiratoria confondibile con banali e temporanee malattie stagionali, seguiva, solo dopo anni (anche decenni) la formazione di neoplasie a livello polmonare di origine tumorale: mesotelioma pleurico ed adenocarcinoma polmonare, nella specie.

Ed ecco la nuova concezione del tempo: la condotta non è più legata alla consumazione dell’evento, né al sorgere della defezione e dei suoi sintomi.; ma alla contezza dell’aver contratto una malattia legata da un nesso di eziopatogenesi con l’inalazione di amianto.

Con maggiore impegno esplicativo, inizierà a decorrere il termine di prescrizione per poter richiedere il risarcimento da malsana esposizione alle polveri di amianto non dal giorno in cui lo sfortunato lavoratore entrerà in contatto con la sostanza tossica, o avrà i primi sintomi generici, ma nel momento in cui avrà piena coscienza della patologia contratta.

La nuova interpretazione del tempo è tesa ad evitare di veder prescrivere il proprio diritto, poiché i sintomi, inizialmente decorrenti dal giorno dell’esposizione alla sostanza nociva, il più delle volte, emergevano oltre i 10 anni dal fatto ingiusto (termine massimo di prescrizione “allungato” dalla configurazione di una fattispecie di natura, anche, penale): lasciando, di fatto, impuniti gli autori della condotta illecita.

Con la nuova interpretazione, dottrinale e giurisprudenziale, si è scongiurato tale pericolo di estinzione del diritto al risarcimento per avvenuta prescrizione del fatto illecito.

In conclusione,volendo sintetizzare in poche righe un un dibattito tuttora ” in fieri”, il valore giuridico del tempo si declina in diverse accezioni e descrive una connotazione “a geometria variabile”: alla base della plastica concezione del tempo vi è la ricerca, teleologicamente e costituzionalmente orientata, della massima tutela della parte debole del rapporto giuridico(in ambito privatistico) e della preminenza dell’interesse dei consociati sulla pretesa del singolo,in ambito pubblicistico.

 

AVV. MAURO CASILLO.

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